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Peter Pan con le la sua ciurma di bambini vive in un’isola che non c’è, uno spazio altro che esiste nella mente di chi ci crede: irreale per gli adulti, ma realissimo per chi riesce a immaginarla, ovvero quei bambini che non vorrebbero crescere mai. Scappano da un mondo complesso, in cui proiettarsi diventa sempre più difficile.

Singolare come la fiaba del 1904 di James Matthew Barrie, per coincidenza o conseguenza (ad ognuno la scelta), segue solo di un anno il celebre saggio La metropoli e la via dello spirito di Georg Simmel in cui il sociologo tedesco traccia e anticipa con grande lucidità le caratteristiche del nuovo “homo metropolitanus”: il cittadino urbano adotta quello che Simmel definisce “atteggiamento blasé”, ovvero distaccato e anestetizzato. Questo perché l'ambiente urbano, vasto e intensamente stimolante, sottopone l’individuo a un flusso continuo di input: ritmi frenetici, traffico, orari da rispettare, pubblicità, luci, suoni. A questa sovrastimolazione sensoriale e relazionale, la mente reagisce sviluppando un distacco emotivo, una sorta di insensibilità difensiva. Non perché manchi la capacità di sentire, ma perché mantenere una sensibilità costante in un simile contesto porterebbe all’esaurimento psichico. D’altronde, come spiega il neuroscienziato Andrea Bariselli, il nostro cervello per millenni si è adattato per farci sopravvivere nell’ambiente naturale da cui proveniamo, sicuramente più ostile di quello urbano, ma in cui rumori e colori forti e improvvisi (che il cervello recepisce come possibili pericoli) sono rari. Due secoli di intensa urbanizzazione e venti anni di intensa digitalizzazione non possono sicuramente cambiare le strutture neuro-cognitive formatisi in millenni di evoluzione. Abbiamo quindi capacità cognitive limitate e il “multitasking” è un’altra appetitosa fiaba che ci rende proficui consumatori del mercato tecno-capitalista neoliberale, ponendoci in un stato più o meno consapevole di stress e ansia (switch cost=costo dello spostamento dell’attenzione costante—>prestazioni diminuiscono).

E eccoci qui oggi, a distanza di 120 anni dal testo di Simmel, dalla foresta al villaggio, dal villaggio alla metropoli dritti fino al multiverso globale di internet, ancora più di ieri stimolati da infinite possibilità, fisiche e virtuali. Quello che Valentina Tanni in Exit Reality chiama “information overload”, riprendendo la definizione degli anni’80 di Michel De Certau che disse:

“Il grande silenzio delle cose si tramuta nel suo contrario attraverso i media. Fino a ieri segreta, il reale ormai straparla. Ovunque non ci sono che notizie, informazioni, statistiche e sondaggi. Mai nella storia si è tanto parlato e mostrato”

Oggi non solo il reale straparla, ma si sfaccetta in miliardi di versioni diverse frutto dell’intrecciarsi delle infinite voci del mondo virtuale, generando un “caleidoscopio vertiginoso”. Ai punti di vista umani si aggiungono quelli generati dalle intelligenze artificiali, i cosiddetti bot e spider che occuperebbero il 64% del traffico internet totale (Daniel Levi, Tech Startups 2022) e spesso programmati per imitare il comportamento umano, quindi difficilmente riconoscibili. Questo picco di informazioni senza precedenti, con le relative interpretazioni e/o manipolazioni, ci sbatte davanti agli occhi un mondo estremamente complesso, insopportabilmente percepibile:

“la macchina che doveva mettere ordine ci ha fatto scoprire la complessità e il caos” (Exit Reality, p.171).

Un codice binario che genera infinite combinazioni, infinite alternative che vendono il fascino della possibilità illimitata che va di pari passo però con il rischio della perdita di controllo. Si insinua il senso di disorientamento, la perdita di fiducia verso una realtà sempre più sfuggevole, mutevole e incontrollabile. Allora ci si anestetizza per non esplodere o ci si rifugia nelle “filter bubbles”, racconti parziali e pregiudizievoli della realtà che isolano gli utenti in ambienti digitali personalizzati, comfort zone a propria immagine e somiglianza in cui il confronto costruttivo basato sulla dialettica tra idee contrastanti non è più necessario semplicemente perché “il diverso” non esiste. Nelle città lo chiameremmo “zoning”, tendenza modernista di organizzare lo spazio urbano in diversi quartieri in base alla funzione (abitativa, produttiva etc.) e al capitale economico di chi li abita: ghettizzazione versus ibridazione. Paradossalmente più cresce l’infinito delle possibilità sia nel mondo fisico della metropoli sia in quello virtuale di internet, più piccolo e specifico si fa il mondo in cui ci rifugiamo.
E appena per sbaglio o per curiosità si esce dal proprio orticello, la valanga di diversità ci sommerge. Allora si insinua la paura e quindi la violenza: quella verbale (di estremi che non sanno dialogare e che perpetuano la logica binaria della macchina, es. shit storming) e quella fisica che sta prendendo sempre più la forma del raptus.
Ed è qui che nella narrazione contemporanea vengono tirati in mezzo gli adolescenti: stragi nelle scuole, in famiglia, tra coetanei, atti vandalici e autolesionisti, disturbi del comportamento alimentare. Si percepisce sconcerto “perché l’età dei “carnefici” si è abbassata”. Ma penso che questa narrazione nostalgica di un “prima” più pacifico non sia né veritiera né centri il punto.
La violenza tra adolescenti e giovani adulti c’è sempre stata, ma cambiano i presupposti. Non è attuata in ribellione a un mondo che non piace e quindi da cambiare in base ad ideali o ideologie in cui ci si rispecchia (anni ‘60-’70), ma è una violenza apparentemente randomica, slegata da qualsiasi sistema valoriale condiviso anche tra coetanei. E’ la violenza di un quindicenne, solo, che spara anche ai propri compagni, ultimo grido disperato di chi crede che il mondo sia inabitabile e il futuro impossibile. Non è nemmeno più un conflitto generazionale.

Sono episodi sempre difficili da catalogare e giudicare senza banalizzazioni. Ma la tendenza a distaccarsi da un mondo sempre più complesso, e la frustrazione che ne deriva, fa da controparte a impeti di rabbia: più il silenzio è assoluto, più forte sarà il boato.
Questa “repressione” della sensibilità e sentimentalità non è propria solo degli adolescenti o giovani adulti “rinchiusi in cameretta dentro ai computer” com’è comodo pensare, ma comune denominatore della società contemporanea. Con la differenza che i giovani, dalla GenZ in poi, stanno crescendo nella iper-consapevolezza delle “infinite possibilità” anche durante il fragile periodo di costruzione della propria identità, quello adolescenziale appunto.
Allora viene da chiedersi se questo spazio delle possibilità, queste isole che ci sono e non ci sono in cui Peter Pan si rifugiava dal mondo adulto per poter sognare e proiettarsi, sono diventate oggi solo fonte di ansia e spaesamento.
La letteratura scientifica recente che studia la “territorialità” degli adolescenti nello spazio urbano parte proprio dal presupposto che il loro “territorio quotidiano” ideale è lo spazio della possibilità che, nelle città, è lo spazio pubblico. È qui che l’adolescente inizia a formare la propria identità “altra” rispetto a quella del nucleo familiare, a sperimentare la propria personalità in relazione ai codici e comportamenti della vita in comune. Lo spazio pubblico come “co-educatore” alla vita di futuro cittadino.

È un processo graduale in cui il giovane inizia ad esplorare lo spazio pubblico urbano nei suoi interstizi più nascosti e meno codificati dalla norma adulta: angoli, piazzette, panchine, parchi, portici, androni, scale, cortili. Sono spazi “limite” ancora regolati dal diritto pubblico, ma nascosti o semi-nascosti dallo “sguardo” adulto. Il limite c’è e con esso l’importante consapevolezza della sua “trasgressione”.
La cosa interessante è che “l’appropriazione materiale e simbolica dello spazio della città da parte degli adolescenti e dei giovani è funzionale alle loro relazioni, quindi non necessariamente intenzionale". Lo spazio pubblico permette quindi incontri non previsti, è uno spazio delle possibilità, di sperimentazioni che però, teoricamente, non possono essere infinite perché sottoposte al limite fisico del proprio corpo nello spazio. Ci sono dei punti fermi.
Ma le città riescono ancora ad offrire questo tipo di spazi ibridi e informali? Qual è la percezione dello spazio pubblico oggi per un adolescente? Sebbene infatti ne siano stati i suoi più grandi utilizzatori, i giovani sono sempre stati esclusi dai processi di trasformazione della città: solo ultimamente si inizia a parlare di una “pianificazione partecipata dello spazio pubblico ad uso dei giovani”. Ma, al contrario, la tendenza negli ultimi tre decenni è stata quella di privatizzare e militarizzare (come per esempio le trasformazioni di molti luoghi pubblici in spazi commerciali). Entrambe politiche urbanistiche escludenti per persone con basso potere d’acquisto e amanti delle aggregazioni spontanee e non sorvegliate. Quindi se è vero che oggi le città offrono più servizi e possibilità rispetto al passato (anche troppe come disse Simmel), vengono spesso servite come format pre-confenzionati e codificati, il contrario degli spazi “ibridi” delle possibilità.


E quando la città diventa un’isola escludente e incontrollabile, l’isola digitale diventa sempre più affascinante. Gli adolescenti, abitatori degli spazi interstiziali urbani, oggi sono diventati anche i maggiori frequentatori dello spazio soglia per eccellenza: lo schermo.

“Sopratutto tra le generazioni più giovani stanno emergendo strategie di fuga dalla realtà sempre più estreme che rappresentano una forma di difesa nei confronti di un mondo giunto al collasso”

scrive Valentina Tanni su Exit Reality, parlando del fenomeno digitale del reality shifting, divenuto trend principale su TikTok nel 2020. Si tratta di creare una realtà alternativa (DR, la realtà desiderata) in cui trasportare la propria coscienza e in cui proiettare la vita perfetta. È preceduta da una precisa fase di scripting che descrive ogni particolare della vita dello shifter che diventa il main carachter: il corpo (un avatar in cui proiettare i propri ideali di bellezza), il luogo da abitare, l’atmosfera, i rapporti con le altre persone, addirittura si può stabilire di non ingrassare, non ammalarsi o ferirsi. A emergere è chiaramente il tema del controllo e la ricerca “di nuovi strumenti per rapportarsi con una realtà che sembra non possedere più i caratteri di stabilità e permanenza. Una realtà che fatichiamo sempre più a distinguere dalla finzione (fenomeno Fake/Cake 2020), che spesso nasce già finzionale, e ci appare ogni giorno più incontrollabile” (Exit Reality, p.164).
Il digitale si configura sempre più come un ambiente di smarrimento creativo, popolato da nickname, avatar, meme, Randonautica, ARC, digital monsters, in cui sperimentare e ridefinire la propria identità. Da oltre un decennio, tuttavia, si può rintracciare un filo conduttore che attraversa le estetiche della rete, come la vaporwave, il dreamcore e il weirdcore. Queste si propagano secondo una logica mimetica, basata sull’imitazione e la variazione, ricreando atmosfere sospese tra il reale e il virtuale: i cosiddetti liminal spaces - spazi di transizione, luoghi di passaggio, o semplicemente ambienti vuoti. Sono paesaggi ambigui e indecifrabili, familiari e al tempo stesso estranei: stanze vuote, corridoi infiniti, labirinti, strade deserte, supermercati notturni, parchi giochi abbandonati.

Ma anche ambienti scolastici e domestici svuotati di ogni presenza umana. Una vuotezza che apre alla possibilità dell’ appropriazione collettiva, evocando memorie sepolte, sensazioni lontane, forse mai vissute ma incredibilmente riconoscibili. La liminalità qui evocata non è solo spaziale, ma profondamente interiore: è lo specchio di un’epoca segnata dall’incertezza, dalla percezione di un futuro sempre più fragile, su un pianeta malato e in uno scenario politico instabile. Il tempo si fa sospeso, cristallizzato in un eterno presente di passaggio, bloccato tra un “prima” irrimediabilmente perduto e un “dopo” che sembra non voler arrivare. Come faceva Peter Pan, le nuove generazioni proiettano su queste “isole digitali” una visione del mondo. Ma è una visione inceppata, sfocata: lo spazio delle possibilità non è più terreno di speranza, bensì di spaesamento.

Quindi nell’epoca dell’iper-frammentazione, che ne è dello spazio pubblico inteso come spazio della possibilità? Le soluzioni preconfezionate in stile ChatGPT non ci convincono, ma un indizio ci arriva dall’opera Four Body Weight (1968) di Franz Erhard Walther: un vuoto disponibile ad accogliere e generare infinite interpretazioni, ma definito da un perimetro “umano”, un limite finito che orienta senza costringere, che protegge dal rischio di smarrirsi. È quel tipo di vuoto che la città fisica contemporanea fatica ancora a concepire, e quel tipo di confine che la città virtuale non riesce a tracciare.
19-10-2025